lunedì 27 febbraio 2012

LA PUTTANA

Faccio la PUTTANA e amo il mio LAVORO. 

 






 





 

“Amo il mio lavoro, voi non dite così? Lo faccio volentieri, mi piace. Io glielo racconto, certo, ma tanto vedrà che poi non lo scrive. Le puttane vanno compatite perché poverette sono costrette dalla povertà dal degrado dalla necessità e se lo fanno è colpa dei papponi che le sfruttano e degli uomini che le pagano, difatti loro non sono colpevoli, per la legge: sono colpevoli gli sfruttatori e in qualche caso in qualche paese i clienti. Loro sono vittime, se potessero scegliere farebbero certamente le insegnanti o le brave madri di famiglia, no?, vorrebbero una bella cucina un salotto col divano a elle un buon marito che torna a casa la sera e le bacia dicendo ciao amore come va. Le cassiere al supermercato, come faceva mia madre, anche. La logica è questa, fa comodo pensare così. Invece no, non è vero. Io faccio la puttana: non sono una puttana, è diverso. Lo faccio perché rende molto e costa poco, lo faccio part time solo la mattina, il pomeriggio vado in giro sto col mio ragazzo se lui è libero, la sera faccio la babysitter a due bambine, ogni tanto, due bimbe bellissime gli riguardo i compiti e gli leggo i libri e le metto a letto che la mamma non può, fa l’avvocato, torna tardi.


Lo faccio perché mi sento di dare qualcosa a qualcuno che ha bisogno, anche, ci crede? È così. Non voglio fare la parte dell’assistente sociale della crocerossina del medico umanitario, ci mancherebbe, anche se so di cosa parlo perché da ragazza io poi quella cosa lì l’ho fatta, sono andata a vent’anni nella ex Jugoslavia in un campo di una Ong a fare la volontaria, un’estate l’ho fatto. Ma questo non c’entra. Dico che gli uomini che vengono qui io li vedo, ci passo il tempo, vedo le loro pance gonfie i denti storti, le cravattone che gli servono a fare finta di essere importanti, le scarpe quadrate che mi fanno pena. Nei vecchi vedo la pelle vizza e il pisello moscio, la loro vergogna e la loro ostinazione a dimostrare che ce la fanno ancora, nei giovani vedo la maschera che si mettono e dietro tutte le paure.

Ci sono quelli che vogliono che ti gli dica solo di no, ce n’è uno che viene qui tutti i martedì vuole che io lo respinga, vuole che gli dica scusa ma proprio non posso ho i minuti contati ho altro da fare, vuole che gli dica: ho due minuti, conto fino a 120 e poi te ne vai. Mi metto davvero a contare, quando sono verso 30-35 gli viene duro, io conto gli dico 90 il tempo sta per scadere e lui lo mette dentro, gli dico 110 e lui spinge, corre, sente che non ha più tempo, che fra dieci secondi mi toglierò da lì e me ne andrò. Gode così. A volte ci riesce, non sempre. Poveretto. Penso sempre chissà cosa gli hanno fatto da piccolo. Chissà chi è che se ne è andato e non lo ha voluto. Torna in un posto della sua memoria, da qualcuno che non lo vuole, questo penso. Lo aiuto. Poi certo dopo si vergogna, mi tratta freddamente, a volte male: sono il suo imbarazzante testimone. Poveretto.

Ce n’è uno sui cinquanta che mi vuole legare, le mani e i piedi, di schiena carponi. Se gli dico sì legami ti stavo aspettando non voglio altro lui si immalinconisce e non lo fa. Una volta mi ha raccontato di sua moglie che non lo vede, lui dice, lo guarda ma non lo vede, non gli parla. La ama: non può fare a meno di lei della sua indifferenza. “Se resta con me vuol dire che mi ama anche lei”, dice. Lo deduce dall’inerzia. Allora gli dico no ti prego non mi legare stamattina facciamolo guardandoci negli occhi e lui è felice, mi sussurra no puttana girati, mi lega finge di violentarmi e sta bene un quarto d’ora. E’ chiarissimo, quando fai questo lavoro, che quello che loro vogliono è che tu faccia finta che non ti facciano schifo: che tu non veda i loro abissi, le loro carie, i loro segreti di cui non parlano con nessuno e che forse nemmeno si dicono mai con se stessi, anzi, al contrario, hanno bisogno che tu non mostri nausea del loro cattivo alito e dei loro odori, le loro sporcizie nascoste nelle pieghe della pelle sotto i vestiti grigi, le loro vite povere, da qualche parte definitivamente segnate. Poi ti dicono scusami, a volte, o povera bambina. Ma poveri sono loro, non io. Io apro le gambe, li tengo dentro, li accolgo. Sono loro che ne hanno bisogno, pagano per questo. Io ho imparato a controllare la nausea molto tempo fa, non la sento, non li sento dove fanno schifo.

Anzi. Prendo i loro soldi, tampono le loro falle, risarcisco le ferite. Non è che sia sempre una passeggiata, certo. Certi giorni non ne ho voglia. Quelli che mi dicono “povera ragazza lo fai per bisogno lo fai perché c’è gente come me che ti costringe, avresti diritto a un lavoro normale” mi fanno proprio incazzare. Questo è un lavoro normale. E’ un lavoro necessario, perché così tutti possono continuare a dare gloria alle loro famiglie unite e solidali e a sopportare le loro miserie. E’ un servizio. Mia madre faceva la cassiera, gliel’ho detto. Le faceva schifo. Si alzava la mattina e diceva che schifo di lavoro, poi ci andava. Avrebbe voluto scrivere favole per bambini, magari, o suonare il flauto. Non lo so. Avrebbe voluto un’altra vita, ha avuto quella. Nessuno lavorerebbe se non ne avesse bisogno: con l’eccezione dei missionari e dei filantropi, certo.

Io ho studiato per fare l’antropologa. Buoni voti, professori entusiasti. I miei felici di una figlia laureata. Sono andata a fare la volontaria dove c’era bisogno, ho visto il mondo. Poi sono tornata qui e tutto quello che ho trovato è stato un lavoro in un negozio di biancheria intima. Seicento euro al mese contratto a progetto. Il mio ragazzo è architetto, lavora in uno studio internazionale, viaggia molto. Un giorno a casa di un amico ci siamo messi a scherzare, abbiamo guardato certi siti internet, c’erano gli annunci, le offerte: vergine offre per mille euro il piacere di essere presa. Vergine? Ridevamo. Dove sono le vergini? Il piacere di essere presa? Ma come parlano? Poi la sera ci ho pensato, e il giorno dopo anche, e tutta la settimana ancora: mille euro, quanto durerà? Al massimo un’ora, accidenti. La prima volta è stato difficile. Ho dato appuntamento a un tizio via mail, poi non ci sono andata. Ho pensato: e se mi ammazza? Perché vede poi è questo il punto: non hai paura di lasciarli fare quello che vogliono fare. Hai paura che ti ammazzino, dopo: con un coltello, con un cuscino, che ti scaraventino giù da una macchina in un burrone, che ti mettano il nastro adesivo sulla bocca e ti buttino a marcire in cantina. Per non lasciare testimoni, è ovvio. Perché magari la loro debolezza è talmente profonda, talmente indicibile che non vogliono, dopo, che ne resti traccia. Per questo la cosa fondamentale è stare qui, protetti, sicuri, con una segretaria alla porta. Certo, la società non lo ammette. Sa quanti matrimoni non avrebbero senso se ci fosse un servizio legale e sicuro di servilismo a pagamento? Non voglio fare della sociologia a buon mercato. Dico solo che lo so per esperienza, per aver visto mia nonna mia madre le mie zie le mie amiche e me stessa. Il mio ragazzo quando è nervoso o stanco dice fammi un pompino. Dice: se tu me ne facessi uno al giorno sarei un’altra persona, poi ride. Però io lo so che è vero. Dice: è insopportabile tornare a casa e non trovare niente da mangiare. Vale per la biancheria, vale per le camicie stirate. Vale per la buona figura che gli fai fare con i colleghi di lavoro la sera se ti metti carina e hai le autoreggenti: caspita, pensano quelli, che fica. Caspita che uomo ad avere una così. Ecco, servizi. Tutti servizi che si potrebbero tranquillamente dare come una linea telefonica dedicata, una spesa a domicilio.

Però no, bisogna che lo facciano le mogli, le fidanzate: è il loro ruolo sociale. Le puttane servono a coprire le disfunzioni del sistema: le mogli alcolizzate e depresse, quelle che non ti rivolgono la parola se non per dirti dove hai messo le chiavi della macchina, quelle che non si tingono i capelli perché non gliene frega niente di piacerti, quelle che dormono fino a mezzogiorno poi vanno a fare shopping, quelle che si ammazzano di lavoro fuori tutto il giorno e la sera non sono carine, no, e meno che mai si fanno legare. Vabbè, comunque mi sa che ho parlato anche troppo e poi tanto lei queste cose di certo non le scrive. La nostra ora è finita, fra dieci minuti arriva il prossimo cliente: cento euro anche lui, certo, gli stessi che ha pagato lei per il mio tempo. Faccio cinquecento euro tutte le mattine, sì. Netti. Cinque giorni alla settimana, il week end raggiungo il mio ragazzo. Sono diecimila euro al mese. Pago un affitto, me ne restano ottomila. Qualche volta quando sono stanca di dire bugie penso ‘smetto’ ma ci ripenso sempre: dov’è un altro lavoro pagato così? Nemmeno un amministratore delegato. D’altra parte è giusto, è un guasto del sistema che ha il suo prezzo, alto. Per continuare a credere che è tutto a posto, va tutto bene, le puttane devono restare segrete, commiserate, compiante e ben pagate. Così la macchina funziona. Il lavoro i bambini le vacanze di Natale le solitudini la vecchiaia i tormenti segreti le ossessioni nascoste.

A me non costa niente, mi pare anche di fare una buona cosa. Sono utile al mantenimento dell’ingranaggio, aiuto persone in difficoltà, guadagno e non mi si vede. Non esisto. Le mogli le fidanzate lo sanno, certe volte, e va bene anche a loro: non esisto, appunto. Loro fanno finta di non sapere, i loro uomini fanno finta di non avere bisogno. Accesso diretto dal parcheggio. Mi sento fortissima, certe volte. Proprio wonder woman. Io li vedo, io li so. Io devo solo aprire le gambe, aprire la bocca, dire di si o di no quando lo chiedono e se no indovinare quello di cui hanno bisogno. Dov’è l’umiliazione? Che sciocchezza colossale. Umiliato è chi chiede o chi dà? Io sono più forte di loro, di tutti quanti loro messi insieme. Io li posso sopportare, disinnescare, placare, eccitare. Io gli servo, loro mi pagano. La padrona sono io”.

"Cristina" è un capitolo tratto dal libro "Malamore, esercizi di resistenza al dolore" di Concita De Gregorio



Giovane 'lucciola' massacrata
Ci sono quattro indagati

La prostituta fu uccisa un paio d’anni fa nel giorno di Pasquetta sull’argine del Po a Zocca. L'inchiesta sulla sua morte oggi sembra ad una svolta 

Paula Burci, prostituta assassinata
Paula Burci, prostituta assassinata
Ferrara, 17 aprile 2010. Il suo cadavere, massacrato e carbonizzato, venne trovato un paio d’anni fa nel giorno di Pasquetta sull’argine del Po a Zocca.
Da viva era considerata solamente per il suo corpo, costretta a venderlo sulle strade a perfetti sconosciuti, di notte.
Da morta nessuno più l’ha reclamata, nemmeno la famiglia, senza soldi per riportarla in patria, in Romania.
Si chiamava Paula Burci, 19 anni, giovane prostituta uccisa e bruciata nella golena del Po da mani ancora sconosciute. Ma l’inchiesta sulla sua morte oggi sembra ad una svolta.
Schiava. Subito sul registro degli indagati comparvero i nomi di un idraulico 35enne di Villadose, e della sua fidanzata, una trentenne rumena oggi detenuta nel carcere di Bucarest.
Proprio grazie alla testimonianza di quest’ultima, polizia e carabinieri erano arrivati ad identificare Paula Burci ed era emerso che la povera diciannovenne si prostituiva in città e figurava nella schiera di «schiave» che facevano capo ad un giro internazionale organizzato fra l’Italia e la Romania.
L’ipotesi di polizia e carabinieri è che Paula sia stata prelevata dalla sua terra d’origine e portata in Italia con la promessa di un lavoro onesto. Ma una volta da noi, sfruttata e gettata sulla strada.
E’ accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere l’idraulico rodigino che ospitò Paula in casa, dove viveva insieme alla fidanzata rumena. Nei guai è finita anche quest’ultima che, secondo le accuse, obbligava la sua sottoposta a prostituirsi.
Nuovi indagati. E proprio nell’ambiente delle ‘squillo’, dove sarebbe maturato l’omicidio, che gli inquirenti stanno facendo pulizia per trovare le ultime prove. Un regolamento di conti? Soldi non versati agli sfruttatori? Questa la pista.
Ora però nuovi sviluppi, nuovi viaggi in Romania, nuove testimonianze. Secondo indiscrezioni gli indagati sarebbero saliti a quattro, gli ultimi due però non avrebbero partecipato materialmente all’omicidio ma avrebbero chiare responsabilità nell’aver costretto Paula alla strada.
Questa la nuova traccia seguita dagli investigatori — Mobile, Reparto operativo e Cc di Copparo coordinati dai pm Barbara Cavallo e Nicola Proto — ormai alle battute finali di questa intricata vicenda. Paula, molto presto, potrebbe avere giustizia.

1 commento:

  1. io penso che a questa ragazza non piacesse fare la prostituta .....................pace all'anima sua ,,,,,,

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